domenica 30 gennaio 2011

(Pe)Stato di diritto

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni
(F.M. Dostoevskij)

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Quattro storie. Diverse per circostanze e protagonisti, ma drammaticamente simili per i loro tragici epiloghi.
Quattro storie in cui il dramma umano degli involontari protagonisti, le violenze e gli abusi delle forze dell’ordine, le speculazioni delle forze politiche ed il troppo frequente silenzio dei mezzi di informazioni si mischiano in un groviglio inestricabile, che rende spesso impossibile l’accertamento della verità. Quattro storie che, comunque la si pensi, vanno ricordate e approfondite, insieme alle altre decine di storie che, ogni anno, si ripetono tristemente nelle carceri e nelle Caserme di tutta Italia.
Per non dimenticarli, per non dimenticare.


La storia di Giuseppe
Giuseppe, quella sera, non sapeva di andare a morire. Era stata una bella giornata. La partita dell’Italia, una serata in compagnia, le risate. Qualche bicchiere di troppo. E poi quella frase, nel cuore della notte: “Uva, è proprio te che cercavo”.
L’incubo di Giuseppe Uva, 43enne artigiano varesino, inizia così.
Sono le 3 di notte del 14 giugno 2008 quando, insieme all’amico Alberto, una pattuglia di Carabinieri lo ferma nel centro di Varese. Euforico, stava transennando una via, nel bizzarro tentativo di deviarne il traffico. Portato in caserma, rimane per ore in balia di una decina di uomini tra poliziotti e Carabinieri.
Le urla strazianti, le grida di dolore. Poi, il silenzio.
L’amico Alberto, rimasto nella sala d’attesa della caserma, chiama un’ambulanza per chiedere aiuto. Al telefono con la centralinista, i Carabinieri minimizzano: “Sono solo due ubriachi, adesso gli togliamo i cellulari”. Alle 5 del mattino, però, l’ambulanza arriva, chiamata dalle stesse forze dell’ordine.
Giuseppe muore alle 10.30 di quella mattina nell’ospedale “Di Circolo” di Varese. La versione ufficiale parla di una combinazione tra farmaci e alcool letale per il corpo di Giuseppe.
Corpo che la sorella Lucia, quella mattina, stenta però a riconoscere: le costole che sporgono in modo innaturale, la pelle livida di botte, le gambe sfregiate da numerose escoriazioni, la mano destra rigonfia, la frattura alla colonna vertebrale, le parti intime insanguinate.
Corpo di un uomo che, due anni e mezzo dopo, non ha ancora avuto giustizia.

La storia di Stefano
Chissà cosa pensava Stefano, quando i Carabinieri lo fermarono nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Addosso aveva 20 grammi di hashish, una piccola quantità di cocaina e una pasticca di Rivotril, che utilizzava per combattere la sua battaglia quotidiana contro l’epilessia. Stefano era tranquillo: sapeva di non essere un narcotrafficante e sapeva che, a casa sua, i Carabinieri non avrebbero trovato nulla.
Eppure, alle 3 di notte, dichiara di sentirsi male. Quando, alle 5 di mattina, arriva in ospedale, ha gli occhi tumefatti. Che volete, “aveva dormito poco e le camere di sicurezza non sono certo alberghi a 5 stelle”, dichiara il maggiore dei Carabinieri Paolo Unali. Ma il referto dei medici dell’ospedale Fatebenefratelli non parla di occhiaie: Stefano presenta ecchimosi su tutto il corpo, lesioni oculari e lesioni alla schiena, due vertebre spezzate.
Quando il padre di Stefano, la mattina stessa, lo incrocia in Tribunale durante il processo per direttissima, legge in quegli occhi lividi di dolore un disperato grido d’aiuto. Sarà l’ultima volta che vedrà suo figlio.
Tradotto nel carcere di Regina Coeli, Stefano Cucchi muore in solitudine all’alba del 22 ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’Ospedale Pertini di Roma.
Pesava 37 chili.

In barba al ministro della Giustizia (della Giustizia) Angelino Alfano, che ha riportato in Parlamento (in Parlamento) la versione della tragica “caduta dalle scale”, il Giudice per l’udienza preliminare di Roma ha rinviato a giudizio 12 persone tra guardie carcerarie, medici e infermieri, condannando in primo grado a 2 anni Claudio Marchiando, direttore dell’ufficio detenuti del carcere di Regina Coeli.


La storia di Federico
Per Federico, quella era la sera del concerto reggae al “Link” di Bologna. Una serata cominciata bene – gli amici e l’emozione per il concerto -, degenerata in qualche eccesso – la delusione per l’annullamento del concerto sfogata nell’alcool e nell’ecstasy– e finita in tragedia.
Sono le 5.47 del 25 settembre 2005 quando una pattuglia della Polizia di Stato incrocia il 18enne Federico Aldrovandi per le vie di Ferrara. C’è una colluttazione. Pochi minuti dopo arriva un’ambulanza: il corpo del giovane è riverso a terra in una pozza di sangue. Testicoli schiacciati, ecchimosi ed ematomi diffusi, una lesione alla testa in sede occipitale, una profonda ferita su una natica e graffi sul viso. Due manganelli sfondati.
L’abbiamo bastonato di brutto…è mezzo morto", si fa scappare il capopattuglia Enzo Pontani in un dialogo con la centrale.
Alle 6.18 Federico muore.
Pochi minuti dopo, come testimonia questo video (minuto 2.33), gli agenti ridacchiano a pochi passi dal suo corpo esanime.

La notizia passa sotto silenzio: qualche trafiletto sui giornali locali e poco più. Nel gennaio 2006 la madre di Federico apre un Blog, attraverso il quale intraprende la sua personale battaglia di giustizia e verità nel nome del figlio. Un figlio prima barbaramente ucciso, poi marchiato con l’etichetta di “drogato”.
Nel luglio 2009 i quattro agenti di polizia vengono condannati in primo grado a 3 anni e sei mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Sono ancora tutti in servizio.


La storia di Aldo (e il futuro di Rudra)
Rudra si alza presto al mattino. Deve andare a scuola, studiare e costruirsi un futuro.
Rudra è rimasto solo in un casolare sulle colline dell’Appennino umbro-marchigiano. Cerca di aiutarlo, tra mille difficoltà, uno zio giunto un anno e mezzo fa dalla Germani. Eh già, perché Rudra non ha più i genitori.
Inizia tutto una mattina d’ottobre, quando gli agenti di Polizia arrestano il padre Aldo e la madre Roberta. Nel campo antistante al casolare i poliziotti avevano trovato delle piantine di canapa indiana. Aldo e Roberta non erano narcotrafficanti; semplicemente, non si arrendevano all’idea di doversi piegare alle prescrizioni di leggi che ritenevano ipocrite ed agli interessi di organizzazioni criminali che non volevano in alcun modo foraggiare.
Dopo una notte trascorsa in carcere, Roberta rivede il marito. Per l’ultima volta.
La mattina dopo – è il 14 ottobre del 2007 – Aldo Bianzino viene trovato morto nella sua cella d’isolamento. Quattro ematomi celebrali, milza e fegato spappolati, due costole fratturate: secondo il referto medico del personale del carcere Aldo sarebbe morto a causa di un infarto.
Prima di morire – nel giugno 2009, uccisa da un tumore e dilaniata da un dolore insopportabile –Roberta lancia una sottoscrizione per il figlio. E’ solo grazie a quest’ultimo, disperato gesto e alla generosa mobilitazione della rete e dei Radicali che Rudra – quando, tra pochi mesi, compirà 18 anni – potrà disporre di una cifra di circa 70mila euro.


Quant’è lontana, Arcore.

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