mercoledì 16 febbraio 2011

Eppur (qualcosa) si muove

"Poi vennero per me, e non era rimasto più nessuno ad alzare la voce..."
(Martin Niemhöller)


“Perché la donna non è cielo, è terra”. E’ quasi buio quando, sui versi della “Ballata delle donne”, una piazza castello ancora piuttosto gremita si scioglie in un lungo ed emozionante applauso carico di dignità. Quella di migliaia di donne, giovani e meno giovani, che dal primo pomeriggio, sciarpa bianca al collo, hanno invaso il centro di Milano da via Dante a Largo Cairoli, fino ai piedi del Castello Sforzesco. Ma anche quella di molti uomini, convinti che la battaglia per il rispetto del corpo e della figura della donna vada combattuta sul terreno culturale più che su quello della questione di genere.

E così, nella Milano dell’industria immateriale, a due passi dal triangolo della moda, i versi del compianto Edoardo Sanguinetti si caricano di ulteriori significati nella voce rotta dalla commozione di Ottavia Piccolo, accompagnata dal rispettoso silenzio della piazza.
Una piazza che nel corso delle oltre tre ore di manifestazione sa emozionarsi, ascoltare, farsi sentire – al grido di “vergogna” e “dimissioni” – e farsi notare, come quando lo sventolio delle migliaia di sciarpe bianche colorano l’uggiosa domenica milanese, regalando un colpo d’occhio da brividi.

Altre scosse arrivano dal palco, dove una brillante Teresa Mannino accompagna gli interventi dei vari ospiti, espressioni di quella società civile che oggi – salvo rarissime eccezioni – è scesa in piazza sfoltita dalle bandiere di partito e avvolta nel tricolore. Tra gli altri Franca Rame, Gad Lerner, Massimo Cirri, Dario Fo e una rappresentante del carcere di Bollate, che, in una lettera, dimostra come suonino beffarde, alle orecchie delle detenute, le elargizioni in denaro del Premier alle non meglio precisate “persone in difficoltà”.

Beffardi sono anche i numerosi cartelloni, stendardi e striscioni che emergono a fatica tra la fiumana di gente – c’è chi dice sessantamila, chi addirittura centomila persone – che ha riempito pacificamente e in modo straordinariamente composto la piazza.
Ci sono quelli (auto)ironici – fenomenale quello che recitava “Silvio, sono incinta!” –, quelli più esplicitamente femministi – “Libere di agire, capaci di reagire” – e quelli più forcaioli, rivolti al Presidente del Consiglio – “in galera!” -, a conferma della pluralità e diversità delle voci presenti in piazza. Una diversità sociale, politica e generazionale che noti dalle piccole cose: una kefiah sgualcita di fianco ad una morbida sciarpa di seta, un’elegante scarpa col tacco di fianco a una più trendy “ballerina”, un “chiodo” ribelle di fianco a un caldo doppiopetto. Ma che vedi scomparire nel bacio sulla fronte con cui un’elegante ed anziana insegnante milanese saluta un suo vecchio alunno, oggi padre, invitandolo a darle de tu. O quando un’unica, grande voce si leva dalla piazza sulle note di “Scandalo” di Gianna Nannini e nel botta e risposta tra il palco e la platea «Se non ora, quando? – Adesso!». Una voce che arriva fino in Largo Cairoli, dove l’entusiasmo della folla è arrivato a lambite la statua di Garibaldi, simbolo di quell’Unità che l’Italia, almeno oggi, sembra aver ritrovato.
I dati sull’affluenza nelle piazze, che arrivano da tutt’Italia, sono infatti impressionanti. Gli organizzatori, dal palco, li leggono nell’euforia generale: centomila a Roma e Napoli, cinquantamila a Torino, ventimila a Bologna, diecimila a Palermo e migliaia in molta altra città italiane e straniere, da Londra alle Hawaii. Alla fine della giornata saranno addirittura un milione in tutto il mondo.

E così, sulle note di una “Bella Ciao” riadattata dai Modena City Ramblers, Milano si scioglie in un ballo liberatorio, ritrovando quell’anima resistenziale che la piazza, con le sue mille voci, ha oggi voluto arricchire di nuovi significati: resistenza al degrado culturale, resistenza alla deriva di un sistema di potere spesso misogino e tentacolare.
Soprattutto, resistenza all’idea che il senso e la portata di questa grande manifestazione possano essere impoveriti da una loro interpretazione in chiave moralistica, che ne deformi la reale natura:

quella di un moto genuino e spontaneo di riscossa culturale.


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